(Nel rispetto della privacy la narrazione riportata attinge a un insieme di casi simili di persone diverse, utili alla descrizione dei principi pratici e teorici riportati, e rinarrati per scopi esemplificativi come un’unica storia.)

– Io mi do tantissimo da fare per gli altri, ma nessuno ricambia – dice Iacopo.

– Cosa intendi? – gli chiedo.

Avevamo iniziato la seduta pochi minuti prima. Come faccio spesso, avevo cominciato chiedendo quale fosse “il motivo che ti porta qui”: una domanda neutra, che lascia l’iniziativa alla persona se cominciare descrivendomi un problema da risolvere o un obiettivo da raggiungere; una domanda che mi permette di cogliere un primo indizio sulla decisione se impostare il colloquio in uno stile più centrato sul problem-solving (Nardone e Watzlawick, 1990), o sul solution building (de Shazer, 1988).

– Mi sento apatico – aveva risposto. Domande orientate al problema, almeno per iniziare.

– Cosa intendi? – ripeto. Voglio cominciare a chiarire il suo problema in termini operativi (Cannistrà, 2018).

Iacopo mi descrive un periodo dove un forte senso di demoralizzazione accompagna ogni area della sua vita, ogni momento del suo sentire, ogni interazione significativa. – È così rispetto ai miei amici, al mio compagno, ai miei colleghi.

– Perché sei demoralizzato? – domando, con l’intenzione di chiarire meglio cosa intenda con questo termine. “Demoralizzato” non è una descrizione operativa migliore di “apatia”. È una parola e il suo significato dipende dall’uso che Iacopo ne fa (Wittgenstein, 1953). In particolare, ho bisogno di capire quali sono i criteri esterni di questo stato interiore (ibidem, §580; Nardone & Watzlawick, 1990) per poter capire su cosa dobbiamo agire.

Iacopo si descrive come un grande lavoratore e, mentre io annoto mentalmente che ha spontaneamente spostato il focus sull’area lavorativa, mi spiega che in tutti i suoi impieghi precedenti finiva per andarsene o per non sopportarli più proprio per questo motivo o, meglio, per le situazioni che si venivano a creare.

– Cioè?

– Io do il massimo, faccio esattamente tutto ciò che mi viene richiesto, sono anche contento di farlo. Voglio dire, ci credo! Credo nell’azienda! Se mi assegnano un compito do il massimo perché è giusto che venga fatto per bene! Sia perché è il mio compito, sia perché poi ne beneficia l’azienda e quindi tutti noi, no? – Annuisco. – Quindi – continua, – non faccio niente di speciale. Eppure, vedo che i miei colleghi non fanno altrettanto, che loro invece stanno con le mani incrociate sulla pancia, aspettando che io dia il massimo, che faccia anche al posto loro. Ma non è così che deve andare! E in più succede che il capo non riconosce quello che faccio e che, anzi, mi viene richiesto di continuare a farlo, col risultato che a un certo punto mi stufo.

– Ti stufi – ripeto.

– Sì. Mi sento preso in giro, capisci? Mi chiedo che mi impegno a fare e forse, in effetti, dovrei fare come gli altri: starmene con le mani incrociate sulla pancia. Solo che io non sono così.

– Mh mh capisco. Sembrerebbe che a lavoro tu ti dia un sacco da fare, ti impegni al cento percento, forse fai anche di più di quello che ti viene chiesto. Solo che poi ti ritrovi di fronte a dei colleghi che non fanno altrettanto e tu ti senti l’unico bue che tira il carro… – Il suo sguardo mi sembra paralizzarsi per un attimo su questa frase. Ho colto nel segno? Nella mia testa comincia a delinearsi un’idea e testo una prima ipotesi di intervento: creare avversione verso uno specifico modello di percezione e reazione (Cannistrà & Hoyt, 2023). – …e alla lunga questo ti demoralizza. E mi chiedo se questo finisca per gettarti in uno stato di delusione rispetto alle aspettative che avevi, fino a farti sprofondare, nel tempo, nello stato di apatia in cui ti trovi adesso.

– Sì – dice Iacopo meccanicamente. Ho colto nel segno? Volevo chiedere la sua teoria di come funziona il problema sia per avere un terreno comune su cui lavorare (Duncan & Miller, 2000), sia per creare una sintonia grazie al linguaggio evocativo (Nardone & Salvini, 2004). Ma avrò compreso? E avrò usato una parafrasi e delle immagini convincenti? O non ho colto e sono fuori strada? – Ho compreso bene? Correggimi se sbaglio – lo esorto così da ricevere un suo riscontro.

– No, no, è proprio così.

Annuisco. – E con il tuo compagno? Con gli amici? – continuo, per farmi un’idea di quanto sia pervasiva la situazione.

– È lo stesso. Con lui anche spesso è così. E con gli amici anche, perché io sono quello che organizza, che dice ‘Dai, facciamo questo, facciamo quello’, ma poi sembra che stia sempre lì a doverli trascinare, che si aspettino che io organizzi tutto, quando loro non lo fanno mai, o quasi.

– Ma poi le cose che fai tu gli piacciono, le seguono? – domando.

– Sì, sì, le facciamo e gli piacciono pure.

Annuisco ancora. Nella mia testa adesso c’è questo giovane adulto, Iacopo, che si dà molto da fare, in particolare nel lavoro ma in generale nelle relazioni interpersonali, con l’idea che sia la cosa giusta da fare, quasi scontata, per far funzionare al meglio i diversi ambienti in cui vive. Non mi chiedo perché, non penso alle possibili cause che l’abbiano portato a fare questo. Come direbbero Watzlawick, Beavin e Jackson (1967), un sistema si spiega in base al suo funzionamento presente e Iacopo mi ha dato diversi elementi interazionali per comprendere come funziona il suo sistema-persona e come funziona se preso come elemento inserito in altri sistemi. Per il momento non sento il bisogno di approfondire le ragioni di questo comportamento – magari più in là, in altre sedute, se questa prima ipotesi di intervento dovesse rivelarsi inadeguata.

Chiedo dei suoi stati d’animo, del suo umore, delle sue intenzioni. Benché non avessi la sensazione di una situazione di rischio volevo togliermi il dubbio: “delusione”, “demoralizzazione”, “apatia” sono parole troppo cariche per non escludere la possibilità di quel rischio, e il suo lasciarsi cadere sulla sedia come un sacco vuoto, il suo raccontare con tono piatto, amaro, tutte le vicende, mi aveva convinto ulteriormente a farlo. La sua Outcome Rating Scale (Miller et al., 2006), con cui ho valutato il suo stato all’inizio della terapia, era molto sotto soglia (13.2, quando la soglia del benessere è a 25), leggermente al di sotto del punteggio medio dei pazienti che vengono da me (circa 17): un motivo in più per non tralasciare nulla.

– Hai mai pensato di ammazzarti?” gli avevo chiesto a un certo punto, diretto, senza virgolette: non è un argomento sul quale girare attorno. Sorpreso, quasi imbarazzato, Iacopo aveva risposto di aver pensato qualche volta che se le cose stavano così tanto valeva farla finita. Ma subito si era affrettato a dire che non era un pensiero serio, era “tanto così, per dire.” Avevo incalzato, indagando se avesse avuto desiderio o intenzione di farlo, e si era affrettato a ribadire di no. – Scusa se te l’ho chiesto – avevo allora sorriso, conciliante. – Mi hai descritto uno stato d’animo davvero forte. Lo vedo quanto sei deluso. E volevo escludere questa possibilità. – Lui mi aveva rassicurato di nuovo, convincendomi. Non puoi mai essere sicuro col rischio suicidio (Pappas, 2021), ma per ora avevo deciso di mettere questo aspetto su un lato della mia scrivania mentale.

Decido di agire su quel sistema di interazioni che ho in mente, ma prima ho bisogno di capire se siamo allineati, se sente che io abbia colto la sua situazione e, a quel punto, se pensa che la mia proposta possa avere senso.

– Faccio un attimo un riassunto, Iacopo. – Lui annuisce. – Da quello che mi hai descritto tu mi sembri… un entusiasta. – Soppeso per un velocissimo secondo l’effetto di quella parola e mi sembra che la accolga come un’efficace definizione di sé, ma dovrò sincerarmene alla fine della parafrasi. – Una persona che si dà un sacco da fare per gli altri, in particolare al lavoro, ma anche nelle altre interazioni – Annuisce, è un buon segno. Continuo, usando accuratamente le sue parole: – Vuoi che l’azienda funzioni, il che è encomiabile, e ti dai anche un sacco da fare per i tuoi amici: mi hai dato proprio l’idea di essere un buon amico, sai? – Sorride, grato e amareggiato allo stesso tempo. – Solo che… gli altri non ricambiano. – Annuisce. – Non come ti aspetteresti tu. – Annuisce di nuovo.

La prima frase mi serviva per vedere se ci fosse un accordo su un contenuto più facile da accettare, perché molto vicino alla sua percezione: ‘gli altri non ricambiano i miei sforzi, non mi danno indietro quanto dovrebbe essermi riconosciuto’. La seconda mi serviva per testare la sua flessibilità. Annuendo anche ad essa ha accettato la prospettiva secondo cui gli altri non ricambiano ‘nel modo in cui si aspetterebbe lui’. Così, insieme, abbiamo appena spostato di significato il comportamento degli altri: non più un totalizzante, generico segno di mancanza di riconoscimento da parte loro, ma un più specifico, ridotto, disallineamento di aspettative. Il fatto che Iacopo abbia annuito non significa, per me, che abbia accettato la “mia” risignificazione: significa che ne abbiamo costruita insieme una nuova. Non voglio persuaderlo della mia visione, voglio capire se la condivide, se ritenga che possa rientrare nel suo sistema di significati.

– È bello quello che fai, il modo in cui ti poni. Intendo dire: lo condivido molto, mi appartiene. – Un po’ di autosvelamento, per cementare l’alleanza, il bond, il senso di sentirsi capito e il più generale legame col terapeuta (Erickson & Rossi, 1982). Iacopo sembra rilassarsi, il volto distendersi. – Però, sai cosa? – continuo. – Non è detto che appartenga anche agli altri. – Mi guarda, fisso, occhi aperti, sguardo in ascolto: penso di essere sulla strada giusta. – Noi abbiamo delle aspettative alte, il che è una buona cosa: ti permettono di essere un buon amico e buon lavoratore. E sono sicuro, anche se non ne abbiamo parlato molto, pure di essere un buon compagno. – Iacopo non dice nulla. Non voglio approfondire il tema del compagno perché lui stesso non l’ha fatto. È sembrata un’informazione quasi accidentale, quindi non so se di fatto lo sia o se non si senta pronto per affrontarla. Se vorrà un’altra seduta potrà sempre tornarci su, o potrò valutare se approfondirlo. Per ora, seguendo le indicazioni di Richard Fisch, riduciamo il database di informazioni (Fisch, 1982). – Però è importante che riconosciamo che si tratta delle nostre aspettative. Ad esempio, a lavoro, quante volte ti sei dato da fare tantissimo aspettandoti un adeguato riconoscimento che poi non è arrivato?

– Praticamente sempre – risponde secco.

– Esatto. Ma noi non possiamo cambiare gli altri. O meglio, è molto difficile ed è molto più semplice cambiare un’altra cosa. – Pausa. Carico di leggera tensione quanto sto per dire (Rampin & Nardone, 2002) perché è il fulcro del mio intervento. L’ho già detto e penso che l’abbia già colto, ma ora devo vedere se è d’accordo con me. – Le tue aspettative – ribadisco concludendo. E Iacopo annuisce deciso. – Cosa ne pensi? – chiedo. Non posso dare per scontato che la mia versione delle cose, la mia risignificazione, abbia senso per lui. Devo accertarmi che siamo in sintonia. Devo chiedere con costanza dei feedback (Cannistrà, 2018) ed essere pronto ad aggiustare la rotta se necessario. Io sono esperto del processo terapeutico, ma Iacopo è l’esperto della propria vita.

– Sono d’accordo – dichiara. – Ma come si fa? – aggiunge con quel sorriso amaro che ha caratterizzato buona parte del nostro colloquio.

Sorrido a mia volta, un sorriso disteso. – Cominciamo col capire cosa funziona e cosa no, così potrai calibrare i tuoi comportamenti a seconda di ciò che ritieni necessario, anziché dare a tutti tutto te stesso incondizionatamente. – Tutti, tutto te stesso, incondizionatamente. Gioco leggerissimamente con quest’allitterazione, per rendere più carico emotivamente il messaggio e sperare che lo aiuti nella modifica del suo comportamento (Rampin & Nardone, 2002; Watzlawick, 1980).

Ora sono pronto per una prescrizione. È importante che Iacopo faccia qualcosa fuori dal mio studio, che abbia modo di confrontarsi col suo problema in modi diversi, che cambi degli elementi del suo agire nei diversi sistemi. Così potrà cambiare i sistemi stessi, quei sistemi di interazioni carichi di aspettative generanti reazioni che disattendevano e deludevano le aspettative stesse, producendo lo stato d’animo apatico in cui si trova adesso.

Questa è la mia ipotesi, una teoria di funzionamento e di intervento che adesso potrà rivelare la sua utilità in base ai risultati che produrrà. Questa è un’ottica pragmatica (Watlzawick et al., 1967) e pragmatista (Peirce, 1905).

– Nei prossimi giorni vorrei che ti ponessi una domanda. Dovrai portela tutte le mattine, mentre sei in bagno e ti stai preparando. – Il tono è lento, ritmico, musicale, il contenuto riporta un’immagine comune, condivisa, con l’idea che tutto ciò aiuti l’aderenza al compito (Nardone e Salvini, 2004; Watzlawick, 1980). – E la domanda è questa: ‘Se oggi volessi continuare a farmi deludere dalle mie aspettative, cosa dovrei fare o non fare, cosa dovrei pensare e non pensare, come dovrei pormi con gli altri, in modo tale da continuare a farmi deludere dalle mie aspettative?’ – Una variazione sul tema della tecnica del come peggiorare (Nardone, 2009). La mia ipotesi d’intervento è rimasta la stessa: identificare e creare avversione verso quelle interazioni che, nelle intenzioni funzionano, ma nell’applicazione no. Aiutarlo a tinteggiare con i colori della realtà delle relazioni vissute le immagini delle relazioni ideali che aveva disegnato.

Iacopo annuisce.

– Ha senso? – chiedo.

– Ha senso – sorride.

– A questo punto ti chiedo una cosa, Iacopo. Posto che la mia porta rimane sempre aperta per te, ritieni di voler prendere un altro appuntamento o vuoi provare ad andare per conto tuo, ponendoti quella domanda per qualche giorno e vedendo cosa cambia? Potrai sempre chiedermi un altro appuntamento successivamente, se lo vorrai. – Il mio mindset è sempre quello della seduta singola (Cannistrà & Piccirilli, 2018). Sono troppo consapevole del fatto che spesso una seduta è tutto ciò che serve per dare per scontato che una seconda seduta sia sempre necessaria.

– Grazie per la fiducia. Mi hai già dato un po’ di elementi su cui riflettere. In effetti credo di essere un entusiasta, come hai detto tu, e di dover riflettere sulle mie aspettative. Però vorrei un altro appuntamento, anche solo per aggiornarti su come è andata.

– Certo – sorrido.

Prima di prendere il prossimo appuntamento gli faccio compilare la Session Rating Scale (Duncan et al., 2003) per valutare l’alleanza di questa seduta. 34.3, leggermente sottosoglia (36): è un risultato comune e gli studi dimostrano che alleanze che partono basse hanno più probabilità di migliorare, ma chiedo comunque se siamo stati in linea e se c’è qualcosa di diverso che avrebbe voluto fare. Mi risponde di no, che ha solo bisogno di tempo per vedere l’effetto di quanto ci siamo detti e della prescrizione.

Due settimane dopo, con convinzione e un sorriso scevro da qualunque amarezza, Iacopo mi dice: – Ho ridimensionato le mie aspettative.

– Che significa? chiedo ricambiando il sorriso.

Mi racconta di non aver percepito un grande cambiamento nei suoi comportamenti, forse una leggerissima inflessione sull’impegno profuso. Ciò che però è cambiato è quanto si aspetta dai colleghi e dal capo: – Faccio quello che voglio fare, perché mi va di farlo e perché ci credo, ma non mi aspetto più che venga riconosciuto come avrei voluto prima.

– E questo che differenza ha fatto?

– Che me la vivo più serenamente. E forse anche che, se non mi va, non lo faccio, o mi fermo prima.

– Hai ridimensionato le tue aspettative – riprendo le sue parole.

– Sì. Non mi piace quello Iacopo che si dà tantissimo da fare per niente in cambio. Non ce l’ho con loro, non dico che sbagliano, però non voglio passare per fesso neanch’io.

Spostiamo la seduta su un piano leggermente più cognitivo, analizzando cosa ha fatto, dandoci delle spiegazioni su come funziona il mondo, gli altri, le relazioni. A dire il vero, lascio che sia lui a darsi le spiegazioni, evitando colonizzazioni (White & Epston, 1990) con le mie idee personali e limitandomi a convalidare la sua visione delle cose, ora apparentemente più funzionale e flessibile. Ci diamo un altro appuntamento, un mese dopo, proprio per valutare che quell’apparenza sia una nuova realtà.

E lo è. In terza seduta il suo ORS è a 31.1, pienamente nella soglia del benessere. Parliamo di come si sta ponendo con gli altri e di come ciò lo soddisfi. Gli chiedo qualche esempio specifico, gli do qualche idea di modi funzionali di interagire che per lo più ricalcano e amplificano cose che lui ha fatto e che ritiene funzionali, oppure propongo comuni strategie di comunicazione efficace che penso possano fare al caso suo. In tutti i casi, chiedo sempre dei feedback: – Ha senso per te?

La terza seduta è anche l’ultima. Non credo ci sia bisogno di altri follow up: il cambiamento è generalizzato e i significati emersi sembrano solidi, integrati nella generale percezione delle cose, in nuove modalità di vedere e fare le cose che non sembrano necessitare l’assistenza di un terapeuta, forti della stessa convinzione di Iacopo di poter continuare a mantenerli. Lui è d’accordo e io lascio la porta aperta, dichiarandogli che, qualora dovesse sentirne il bisogno, potrà sempre contattarmi.

 

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Bibliografia

Cannistrà, F. (2018). Il metodo dell’Italian Center for Single Session Therapy. in F. Cannistrà e F. Piccirilli, op. cit., pp. 89-120.

Cannistrà, F. & Piccirilli, F. (2018). Terapia a seduta singola. Principi e pratiche. Giunti.

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