È abbastanza diffuso, noto e sempre attuale, un pregiudizio che, fin dai suoi esordi, aleggia sulla terapia breve: ovvero, che non è adatta, non è efficace, non è risolutiva, per i casi cosiddetti “difficili”.
È, al contrario, efficace e risolutiva nei casi semplici o con sintomatologie lievi e circoscritte.
Se si pensa, infatti, a quale era il clima predominante per quanto riguarda la psicoterapia quarant’anni fa, pensare di risolvere un problema, una sofferenza psicologica, concentrandosi esclusivamente su ciò che lamentava il paziente, veniva considerato una cialtroneria.
Ciò che lamentava il paziente, rappresentava solamente la punta dell’iceberg: se non si andava nel profondo, nell’inconscio, qualsiasi intervento era da ritenersi, nella migliore delle valutazioni, un intervento ingenuo.
Allo stesso tempo, però, è decisamente paradossale come la terapia breve abbia mosso i suoi primi passi e visto i suoi primi sviluppi e successi, proprio a partire dallo studio e dalla pratica di “casi difficili”.
In parole brevi, la terapia breve nasce con i casi difficili
Con riferimento a ciò, nel 1956, più o meno dieci anni prima della fondazione del Brief Therapy Center all’interno del Mental Research Institute, che ha dato il via ai lavori del fortunato Gruppo di Palo Alto, Gregory Bateson, Don D. Jackson, Jay Haley e John Weakland, pubblicavano l’articolo Toward a Theory of Schizophrenia ovvero “Verso una teoria della schizofrenia”.
In questo lavoro, tra i diversi contenuti di pregio, vi è l’introduzione del concetto di “doppio legame”, concetto la cui fama e utilità è ancora oggi fondamentale per spiegare come particolari dinamiche comunicative all’interno delle famiglie possa favorire lo sviluppo e il mantenimento della schizofrenia.
L’attenzione alle dinamiche comunicative e relazionali ha senza dubbio avuto un impatto notevole sullo sviluppo e sull’evoluzione della terapia breve nell’affrontare casi complessi: l’aver portato alla luce i meccanismi del doppio legame, consentiva ai terapeuti di individuare, interrompere e bloccare schemi comunicativi disfunzionali che contribuivano al mantenimento della patologia, facilitando, di fatto, l’intervento anche in situazioni molto complesse.
Gli stessi autori, che rappresentano i nomi che hanno portato alla fioritura della terapia breve nelle varie declinazioni, hanno affinato e sistematizzato i metodi di intervento terapeutico, occupandosi principalmente di casi difficili e complessi (dipendenze, psicosi, violenze…).
Casi difficili: quale e quali realtà?
Prima di entrare nel vivo, è importante definire cosa si intende per “casi difficili”.
Cosa rende certi problemi seri, preoccupanti o difficili? Esiste una realtà univoca o tante realtà in cui la soggettività ha un ruolo chiave nel costruire determinate modalità di percepire e reagire?
Da un punto di vista prettamente ingenuo, i casi difficili, seri e preoccupanti, sono quelli in qualche modo refrattari ad interventi che, al contrario, sono efficaci con problemi meno seri, più lievi: se la terapia non funziona, è il paziente che ha un problema troppo grave e importante.
Prendendo, invece, come cornice di riferimento il costruttivismo, fondamento epistemologico della terapia breve, la complessità, la gravità, non andrebbero trattate come sentenze diagnostiche, che in qualche modo anticipano l’immutabilità della situazione presentata dai pazienti che ne sono afflitti, andando anche ad influenzare negativamente il terapeuta nella sua possibilità di intervento efficace.
L’approccio breve, al contrario, parte da una diagnosi operativa del funzionamento e dei comportamenti che creano sofferenza per quella specifica persona, in quelle determinate circostante o in quelle specifiche interazioni. I medesimi comportamenti, allo stesso tempo, potrebbero non creare sofferenza e disagio in un’altra persona.
La sfida della terapia breve nei casi difficili
In che modo, allora, la terapia breve potrebbe funzionare con i casi difficili?
- Si interviene su ciò che mantiene il problema
Fisch e Schlanger, altri due nomi di spicco nel panorama della terapia breve, evidenziano come il cambiamento sia possibile anche nei contesti più resistenti e refrattari, a patto di intervenire in un modo mirato, personalizzato, creativo e pragmatico.
L’obiettivo della terapia breve, anche con i casi difficili, non è quello di andare alle origini profonde del problema, quanto piuttosto di identificare e interrompere innanzitutto quelle che verranno chiamate dal suo ideatore John Weakland, le tentate soluzioni disfunzionali, che contribuiscono a mantenere se non addirittura a peggiorare il problema.
- Descrizioni operative, non diagnosi
Nei casi complessi, il paziente spesso può sentirsi giudicato o patologizzato dall’etichetta che gli viene attribuita. La terapia breve si concentra sul funzionamento del problema e sulle sue interazioni, liberando il paziente dalla percezione di essere “sbagliato o difettato” e promuovendo la responsabilità e la riattivazione delle risorse.
- L’utilizzo di logiche non ordinarie per promuovere il cambiamento
La terapia breve, nel promuovere il cambiamento, non si affida alla logica ordinaria, che mal si presta ai comportamenti umani, ma adotta interventi indiretti, paradossali o controintuitivi che mirano ad utilizzare le resistenze del paziente, piuttosto che contrastarle.
Un emblematico caso trattato da Don Jackson è quello in cui, con un paziente paranoide, convinto che i suoi nemici stessero registrando la loro seduta, lo obbligò letteralmente a mettere sottosopra lo studio in cerca delle cimici: alla fine il paziente si rese conto che stava inventando tutto e che probabilmente aveva bisogno di cure.
Questo tipo di interventi risultano particolarmente efficaci nei casi difficili, dove approcci tradizionali e razionali generalmente incontrano resistenze.
- La brevità come alleata
Contrariamente a quanto la logica indurrebbe a pensare, la limitazione del tempo non è un ostacolo ma può rappresentare un vantaggio nello spingere il paziente ad attivarsi e sperimentare il cambiamento e nel credere che il cambiamento sia possibile.
Come afferma Paul Watzlawick, un altro pioniere della terapia breve, il cambiamento non richiede necessariamente molto tempo. Richiede l’intervento giusto.
Il fatto che problemi complessi, richiedano interventi altrettanto lunghi e complessi è, di fatto, una credenza estremamente ingenua.
I risultati della terapia breve con i casi difficili
Diversi studi hanno raccontato nel tempo l’efficacia della terapia breve anche nei contesti più sfidanti. Il lavoro di terapeuti come Milton Erickson, Steve De Shazer, padre fondatore di uno dei modelli di terapia breve più praticati al mondo, la Solution Focused Brief Therapy, ha mostrato innumerevoli successi in casi di disturbi cronici, fobie, dipendenze e problematiche familiari complesse.
Nel modello Solution-Focused Brief Therapy (SFBT) di De Shazer, in particolare, l’attenzione viene posta dal problema alla costruzione delle soluzioni piuttosto che alla costruzione di uno scenario in cui il problema non è presente o è fronteggiato efficacemente grazie alla riattivazione delle risorse della persona. Questa modalità di intervento permette di accogliere le resistenze tipiche riscontrate nei pazienti “difficili”, portando alla luce ciò che funziona nella loro vita. In fondo, come ci ricorda De Shazer, nessun problema si verifica costantemente 24 ore su 24.
La risposta della terapia breve alla presunta inefficacia nell’intervento con casi difficili
Rispetto all’esordio di questo articolo, una delle principali critiche alla terapia breve è il suo rimanere in superficie: un intervento di breve durata non sarebbe in grado di incidere in profondità su problematiche psicologiche complesse. Tuttavia, questa critica si basa su un presupposto errato e tutt’altro che dimostrato: ovvero che la durata dell’intervento sia direttamente proporzionale alla sua efficacia.
Riprendendo alcune parole di Fisch e Schlager potrebbe essere opportuno ribadire che anche con i casi difficili, non è la lunghezza del percorso terapeutico a determinare il cambiamento, ma la qualità e la precisione dell’intervento a fare la differenza.
Anche l’immutabile può essere cambiato.
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Bibliografia
Bateson, G., Jackson, D. D., Haley, J., & Weakland, J. (1956). Toward a theory of schizophrenia. Behavioral Science, 1, 251–264. https://doi.org/10.1002/bs.3830010402
De Shazer, S. (1985). Keys to Solution in Brief Therapy. New York: Norton.
Fisch, R.& Schlanger, K. (2002). Cambiare l’immutabile. Terapia Breve per i casi difficili. Milano: Raffaello Cortina Editore.
Nardone, G., & Watzlawick, P. (2005). L’arte del cambiamento. Milano: Ponte alle Grazie.
Watzlawick, P., Weakland, J. H., & Fisch, R. (1974). Change: Principles of Problem Formation and Problem Resolution. New York: Norton.