Uno dei quesiti più frequenti, quando si parla di terapie brevi, è come si possa arrivare ad un cambiamento nel cliente, aggirando o superando le classiche “resistenze”, in un tempo inferiore rispetto alle classiche terapie a lungo termine
In questo articolo daremo solamente una delle risposte possibili, ovvero l’utilizzo delle prescrizioni dirette, indirette e paradossali di derivazione strategica.
Come è possibile indurre il cambiamento velocemente?
Se Buddha disse che “non c’è nulla di costante, tranne il cambiamento”, è altrettanto vero che di fronte ad esso possiamo aspettarci spesso una forza opposta, la cosiddetta “resistenza al cambiamento”.
La terapia strategica ha fatto sua la concezione di “resistenza” di Milton Erickson. Nel 1979 Erickson spiegò che essa «è solitamente un’espressione dell’individualità del paziente. Il compito del terapeuta è quello di capire, accettare e utilizzare questa individualità per aiutare i pazienti a superare i loro limiti appresi e raggiungere i propri fini» (Erickson, Rossi, 1979, p. 87).
La resistenza, dunque, non viene interpretata e rimandata al paziente come “intenzione, conscia o inconscia, di opporsi”, ma si cercano dei modi per aggirarla o persino utilizzarla.
Un principio cardine delle terapie strategiche ed in generale delle terapie brevi, riguarda il “far fare”, cioè l’orientamento all’azione. Al contrario di terapie più tradizionalmente psicoanalitiche o cognitive, in terapia strategica viene dato molto spazio alla prescrizione di esperienze concrete da far fare al paziente fuori dalla seduta.
In termini generali, potremmo dire che i problemi della persona sono “lì fuori”, fuori dal nostro studio, e niente di più valido di un’esperienza concreta, sul campo, può metterli in discussione, sradicarli e infine sostituirli con percezioni e comportamenti più funzionali.
Volendo legarsi a un costrutto teorico di vecchia data, Watzlawick (et al. 1997) spiega come le prescrizioni di comportamento date ai clienti vadano costruite in modo tale da produrre un’“esperienza emozionale correttiva”, termine coniato negli anni ’40 dallo psicoanalista Franz Alexander per riferirsi ad esperienze capaci di produrre delle emozioni nuove, in grado di annullare quelle patogene.
A questo punto il terapeuta può vedere sotto un nuova luce la domanda che ci siamo posti all’inizio: come portare la persona a fare quel tipo di prescrizione che produrrà un’esperienza emozionale correttiva e, da lì, un cambiamento?
Le tecniche che vogliamo presentare vanno costruite ad hoc sulla persona e sul problema. In generale, possiamo trovare tre grandi categorie di prescrizioni: dirette, indirette e paradossali (Nardone & Watzlawick, 1990).
Prescrizioni dirette
Le prescrizioni dirette sono chiare indicazioni di azioni da eseguire.
Ad esempio, a un genitore che motiva costantemente il figlio a studiare, producendo in lui un rifiuto, si può indicare di interrompere temporaneamente i propri vani sforzi, cosicché il figlio riduca il suo atteggiamento rifiutante (Watzlawick, Weakland, Fisch, 1974; Scarlaccini, Cannistrà, Da Ros, 2016).
Oppure, a chi soffre per problemi di natura ansiosa, e che parla costantemente del suo problema senza accorgersi che così facendo alimenta le sue ansie, si può chiedere di limitare le comunicazioni sul problema, in modo tale da evitare questa sua tentata soluzione disfunzionale.
Naturalmente è chiaro come questo tipo di prescrizioni possano usate quasi esclusivamente con persone molto collaborative, cioè che vogliono e possono mettere in pratica quanto richiesto. Oppure possono essere usate in fasi avanzate della terapia, quando cioè il problema è ormai quasi totalmente risolto e occorre chiedere alla persona di fare determinati compiti utili a mantenere i risultati raggiunti.
Prescrizioni indirette
Le prescrizioni indirette sono invece «quel tipo di ingiunzioni di comportamento che mascherano il loro vero obiettivo» (Nardone, Watzlawick, 1990, p. 96): si prescrive al paziente di fare qualcosa che produrrà (anche) un effetto diverso da ciò che esplicitamente si attendeva.
A chi soffre di attacchi di panico, per esempio, può essere prescritto di tenere un diario dei suoi attacchi, da compilare nel momento esatto dell’insorgenza di ognuno di essi, così da poterli monitorare: lo scopo secondario, però, sarà quello di spostare l’attenzione della persona su un compito semplice ma impegnativo, cosicché eviti invece di monitorare le proprie funzioni corporee.
A un uomo che si riteneva incapace di attraversare la strada, Erickson chiese distrattamente di fargli un favore: poiché egli era su una sedie a rotelle, gli chiese di imbucare per lui una lettera nella cassetta lì vicino. Per farlo l’uomo non si rese conto di attraversare per due volte la strada se non quando tornato da Erickson (Haley, 1973). Questo, diremmo noi, produsse una prima esperienza emozionale correttiva di cambiamento; in altri termini, potremmo dire che la sua percezione di sé come incapace di attraversare una strada fu messa in discussione da lui stesso.
Paul Watzlawick ha parlato in proposito di “eventi casuali pianificati”: il terapeuta prescrive al paziente di fare un’azione apparentemente neutra (imbucare una lettera) che produrrà un effetto apparentemente casuale (riuscire ad attraversare la strada) dagli effetti terapeutici.
Questo tipo di prescrizioni sono molto utili per fare ciò che in terapia strategica viene detto “aggirare la resistenza“, soprattutto laddove questa sia data da limiti legati a percezioni di sé. Parlando dell’ipnosi, Erickson e Rossi spiegano come i pazienti «hanno dei problemi a causa di limiti appresi; sono prigionieri di schemi mentali, strutture di riferimento e sistemi di credenze che non permettono loro di conoscere e utilizzare le proprie capacità con il massimo vantaggio» e come il contesto terapeutico permetta loro «di rompere le loro limitate strutture e sistemi di credenze in modo da poter sperimentare altri modelli di funzionamento in se stessi» (1979, p. 18).
Sebbene, rispetto a quest’ultima citazione, gli autori facciano riferimento al momento della trance terapeutica, ciò vale per ogni situazione in cui la persona viene messa in grado di andare oltre i propri limiti: la prescrizione indiretta fa esattamente questo, aggirando però la normale resistenza che farebbe dire al paziente “non posso farlo”.
Prescrizioni paradossali
In ultimo arriviamo alla prescrizione paradossale o, in senso più clinico, la prescrizione del sintomo che, come sostengono Watzlawick, Weakland e Fisch «è indubbiamente la forma più efficace ed elegante che conosciamo di soluzione dei problemi» (1974, p. 119).
La tradizione strategica del Mental Research Institute identifica come “problemi” degli «impasse, punti morti, nodi, eccetera, creati e mantenuti mediante il trattamento errato delle difficoltà», le quali sono invece uno «stato di cose indesiderabile che può essere risolto con qualche azione dettata dal senso comune» (p. 51). Tra i problemi, dunque, rientrano anche (ma non solo) le condizioni sintomatiche.
Più in generale, una situazione problematica è qualcosa di per sé irrisolvibile con le normali azioni comuni (altrimenti non sarebbe un problema), qualcosa che può presentarsi come «spontaneo e irrefrenabile, ad esempio coazioni a ripetere, ossessioni o comportamenti ostinati» (Nardone, Watzlawick, p. 97).
In questo senso la prescrizione paradossale, già studiata dallo psicoanalista Victor Frankl (1960), prevede di chiedere alla persona (o di porla nelle condizioni) di mettere in atto esattamente il comportamento di cui si vuole liberare: in questo modo l’esecuzione volontaria ne annulla l’aspetto di spontaneità irrefrenabile, mettendola sotto il controllo cosciente e annullandone velocemente la presenza.
Tra i noti e più utilizzati esempi di prescrizione paradossale si può pensare al paziente vittima di pensieri ossessivi a cui si chiede, in determinati spazi appositamente concordati, di pensare volontariamente proprio a quei pensieri (Fisch et al., 1982); oppure, a un insonne che non riesce a dormire si può indicare di rimanere sveglio a tutti i costi per svolgere un compito sgradevole, come incerare il parquet (Erickson, 1967); a un ragazzo tormentato dalla paura di essere biasimato si chiede di rendersi più volte intenzionalmente ridicolo con semplici e ingenue azioni (Watzlawick, 1977).
La forza delle prescrizioni paradossali è tale che quasi sempre il problema in poche sedute si sblocca e comincia a ridurre la sua intensità e frequenza, fino a scomparire.
Naturalmente tutte le prescrizioni vanno calzate su misura, contestualizzate alla realtà del paziente e adattate alla sua situazione. Inoltre il terapeuta esperto capirà come vadano calzate con un linguaggio specifico poiché, come gli stessi autori citati hanno notato, la difficoltà maggiore sta nel far accettare al paziente di mettere in atto, seppur temporaneamente, proprio il comportamento di cui vogliono liberarsi. Questo è il motivo per cui ci si è molto soffermati sullo studio e sull’apprendimento di quello che viene chiamato “linguaggio del cambiamento” (Watzlawick, 1977).
Dott. Flavio Cannistrà
Psicologo, Psicoterapeuta
Direttore Didattico dell’Istituto ICNOS
Bibliografia
Erickson, M.H. (1967). Le nuove vie dell’ipnosi. Roma: Astrolabio, 1978.
Erickson, M.H. & Rossi, E.L. (1979). Ipnoterapia. Roma: Astrolabio, 1982.
Fisch, R., Weakland, J.H. & Segal, L. (1982). Change. Le tattiche del cambiamento. Roma: Astrolabio, 1983.
Frankl, V. (1960). Paradoxical Intention. In Americal Journal of Psychotherapy, 14, pp. 520-35.
Haley, J. (1973). Terapie non comuni. Roma: Astrolabio, 1976.
Nardone, G., Watzlawick, P. (1990). L’arte del cambiamento. Milano: Ponte alle Grazie.
Scarlaccini, F., Cannistrà, F. & Da Ros, T. (2016). Manoscritto in lavorazione.
Watzlawick, P. (1977). Il linguaggio del cambiamento. Milano: Feltrinelli, 1980.
Watzlawick, P. & Nardone, G. (a cura di). (1997). Terapia breve strategica. Milano: Raffaello Cortina.
Watzlawick, P., Weakland, J.H. & Fisch, R. (1974). Change. Sulla formazione e la soluzione dei problemi. Roma: Astrolabio, 1974.