(Il caso clinico descritto in questo articolo NON è reale. Si tratta di una narrazione esemplificativa di un intervento terapeutico breve strategico che prende spunto da più situazioni modificate e rese opportunamente irriconoscibili).

 

Fase iniziale

In un tiepido giorno di maggio, A., una donna sulla quarantina, si presenta al nostro appuntamento. La accolgo sulla soglia dello studio e le chiedo di accomodarsi dove preferisce.

Con un paio di domande rompi-ghiaccio cominciamo a conoscerci per poi entrare nel vivo della nostra prima seduta. Mi informa che da anni sente di non stare bene ma che solo nell’ultimo periodo ha finalmente trovato il coraggio di vedere uno psicologo. Il caso, infatti, ha voluto che trovasse il mio contatto grazie alle collaborazioni che sto svolgendo sul territorio.

Com’è mio solito fare, procedo a informarla, a grandi linee, sul mio approccio terapeutico e su quello che avremmo provato a fare insieme nel corso della nostra seduta, cercando di ricavarne il massimo.

Mentre A. inizia a raccontarmi cosa la porta da me, noto che non sta tanto comoda. Cambia spesso posizione sulla poltrona. Prima accavalla le gambe, poi si adagia a un bracciolo, poi drizza la schiena e si tortura le mani appoggiate sulle cosce.

Di fatto, quello che mi sta dicendo non è facile da tirar fuori, tanto più quando è la prima volta in assoluto che lei stessa si racconta ad alta voce.

A causa del Covid-19 ha dovuto affrontare la gravidanza da sola, accumulando ansia e stress al solo pensiero che potesse succedere qualcosa a lei o al nascituro. Pensiero che, purtroppo, si è concretizzato poiché, a seguito del parto, sono sorte complicanze di varia entità che hanno richiesto un andirivieni continuo dall’ospedale e una vigilanza costante a ogni rientro a casa.

“Sarà stata una situazione comune a molte donne, durante la pandemia”, si dice A. “Nessuna sapeva cosa aspettarsi. Sono andata avanti, ho sopportato di tutto, ma non avrei mai immaginato che con mio marito le cose potessero diventare così fredde”.

Ed eccolo lì, il nocciolo del suo problema.

Fase intermedia

Le cose si erano fatte fredde già da un po’.

Il marito di A. le si mostrava scostante, aveva cominciato a trattarla quasi come un semplice contenitore, come la “portatrice” di suo figlio, e non più come la sua compagna, come la donna con la quale aveva deciso di passare la vita.

Quando gli chiedeva esplicitamente una spiegazione di quei comportamenti o quando cercava in lui una maggiore vicinanza, le appariva irrigidirsi ancora di più, le parlava poco e la toccava poco.

Eppure, continuava a partecipare alle visite di controllo e non vedeva l’ora di diventare papà. Le uscite con gli amici si tenevano regolarmente, come se non ci fosse alcun problema, al pari delle uscite di coppia, ormai centrate esclusivamente sui bisogni del bambino.

A. non sa dirmi da quando il suo mondo ha cominciato a crollare, perché nel mentre ha ben deciso di dare un taglio netto alle sue emozioni. È certa, però, che una tra le tante abbia cominciato a pulsare forte quando il marito ha deciso, senza consultarla, per un trasferimento improvviso: A. non ci ha visto più dalla rabbia.

Il trasferimento ha segnato il ritorno al loro paese natale, dove A. ammette di aver trovato, grazie alla famiglia di origine, parte del supporto di cui sentiva un forte bisogno… peccato che le cose sono solo parzialmente migliorate, poiché quel supporto non è andato di certo a sostituire quello che lei desiderava tanto dalla sua dolce metà.

“Pensava di spostare il pacco e risolvere il problema”, mi dice in seconda seduta. “Come se fossi soltanto io la causa di tutti i nostri mali”. Questa frase mi ha colpita: è come se lei e il marito si fossero incastrati in un gioco senza fine, dove la causa e l’effetto delle loro azioni si sono fuse e confuse.

Fase finale

Avendo compreso che ormai è impossibile individuare da cosa nasce cosa, A. si è divertita a valutare insieme a me delle strategie che le permettessero di modificare quel loro gioco. Nello specifico, abbiamo pensato a un piccolo esperimento: avrebbe dovuto provare a riavvicinarsi al marito con piccoli gesti, quasi impercettibili, senza che lui se ne rendesse conto.

Cosa ci aspettavamo?

Poiché il marito di A. ha un atteggiamento evitante ed è solito inviarle segnali contrastanti, questa manovra avrebbe permesso ad A. di ribaltare l’esito delle loro interazioni: se non mi cerchi tu, comincio a cercarti io, così poi mi cerchi anche tu mentre continuo a farlo anch’io.

In terza seduta A. mi dice che ce l’ha messa tutta per far avvertire al marito la sua presenza. Mi racconta che ha provato a sfiorarlo quando si ritrovava a passargli accanto, che gli allungava ogni tanto un piccolo calcio innocente mentre erano seduti a tavola e che, quando si sentiva fortemente ispirata, gli faceva addirittura dei complimenti sulla scelta del profumo o della camicia del giorno. Insomma, piccole e semplici azioni che non implicavano un dirsi o fare delle cose tanto per riempire i vuoti ma per comunicare all’altro che un’inversione di rotta era possibile.

E, infatti, si è manifestata. A. mi informa che da parte del marito, nell’ultima settimana, sono stati lanciati degli sguardi diversi, seppur brevi e quasi sfuggenti. Di fronte a questi, nonostante l’incertezza iniziale, mi dice che è riuscita a portare avanti l’esperimento.

Non si è lasciata intimidire dalla novità e, anzi, ne ha fatto tesoro per cominciare a notare tutte le situazioni nelle quali, da lì in poi, il compagno le è parso ricambiare le sue attenzioni.

In quinta seduta, l’ultima prima del follow up, A. arriva e si siede entusiasta sulla sua poltrona, riportandomi carezze e baci inaspettati.

 

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