La cornice teorica intorno alla terapia strategica familiare

Quando si parla di terapia strategica familiare non possiamo non fare riferimento alla figura straordinaria di colui che è considerato uno dei suoi padri fondatori, ovvero Jay Haley.

Quest’ultimo, insieme a Don D. Jackson e a John Weakland ha costituito il gruppo di ricerca sul Double Bind (conosciuto in italiano come “doppio legame”) che, sotto la guida di Gregory Bateson, diventerà uno dei principali modelli di ispirazione delle Teoria della Comunicazione e dell’ipotesi familiare alla base della schizofrenia.

Questi contribuiti, insieme alla Teoria dei Sistemi e alla Cibernetica, hanno rappresentato i punti di riferimento entro i quali la terapia familiare si è sviluppata e sistematizzata come modello di intervento con la famiglia all’interno dell’approccio strategico.

La nascita della terapia familiare viene collocata intorno agli anni ’50 del secolo scorso in Nord America tra la costa Est (grazie al lavoro della Scuola di Palo Alto) e la costa Ovest (dove si è maggiormente sviluppata la terapia familiare ad approccio psicodinamico).

Nel modello di terapia strategica familiare di Haley, non possiamo non menzionare l’influenza di Milton Erickson, di cui Haley ha trascritto gran parte del lavoro clinico, coniando anche il termine di terapia strategica, di Salvador Minuchin e di Cloè Madanes, quest’ultima insieme ad Haley ha fondato il Family Therapy Institute di Washington e il Family Therapy Center del Maryland.

Dal singolo alla famiglia come sistema interconnesso

Nel modello che Haley definisce la terapia del problem solving (2010), oggetto fondamentale di osservazione sono le sequenze di comportamento che accompagnano il problema e l’organizzazione del sistema familiare intorno ad esso: il sintomo, infatti, è un atto comunicativo che assume un significato metaforico specifico all’interno di quel sistema.

Il compito del terapeuta sarà dunque quello di definire con chiarezza il sintomo e progettare un intervento ad hoc che possa interrompere la sequenza patologica delle interazioni tra i membri della famiglia: intervenendo sul singolo, si interviene sul sistema di cui quel sintomo è un’espressione.

La struttura della terapia con la famiglia nella Terapia Strategica Familiare

Il modello prevede la strutturazione di tutte le fasi, dalla definizione del problema e individuazione dell’obiettivo alla risoluzione del sintomo.

E proprio perché è importante non solo che la terapia finisca bene ma che inizi anche bene, ci si concentrerà sulla struttura del primo incontro.

Vengono individuate, a tal proposito, 5 fasi prototipiche da sviluppare nel primo colloquio con la famiglia, che seguono la fase del primo contatto, durante il quale vengono raccolte le informazioni relative alle persone che saranno coinvolte e sul problema.

Una scelta da preferire è sicuramente quella di convocare tutte le persone coinvolte nel problema: la presenza di tutti i familiari, infatti, renderà sicuramente l’intervento più efficace, evitando coalizioni ed alleanze disfunzionali che possano in qualche modo replicare ciò che già accade all’interno della famiglia.

Durante il primo contatto è essenziale che ci sia estrema chiarezza da parte del terapeuta al fine di chiarire se si tratta di un invio/accesso spontaneo oppure no e di convocare in maniera inequivocabile i membri della famiglia al primo colloquio.

Le 5 fasi del primo colloquio con la famiglia

  1. Socializzazione, durante la quale sia accoglie la famiglia (ovvero coloro che sono stati invitati a partecipare) e si mette a proprio agio attraverso delle domande informative generiche. Questa fase è molto importante perché permette al terapeuta di iniziare ad osservare le interazioni tra i membri, l’umore generale, se ci sono coalizioni e alleanze. È importante però in questa fase, che il terapeuta non giunga a conclusioni affrettare e soprattutto che non le espliciti con la famiglia.
  1. Definizione del problema, dove il terapeuta comincia ad indagare il problema e il suo funzionamento, ponendo la domanda tipica “perché siete qui, qual è il problema?”. Questa fase è particolarmente importante perché definire bene il problema significa individuare una importante leva per il cambiamento della famiglia. È essenziale, inoltre, dare voce a tutti i membri della famiglia rispetto a quello che è percepito come il problema: a tal proposito, un buon suggerimento potrebbe essere quello di iniziare dal membro che è meno coinvolto nel problema.
  2. Interazione, durante la quale il terapeuta invita attivamente i membri della famiglia ad interagire tra loro. Durante questa fase il terapeuta potrà continuare ad acquisire informazioni sul problema attraverso le interazioni tra i membri, che saranno incoraggiare attivamente: è essenziale, infatti, in questa fase che i membri interagiscano tra loro e non con il terapeuta.
  3. Definizione degli obiettivi, durante la quale viene chiesto alla famiglia di definire i cambiamenti desiderati. Durante questa fase viene sviluppato un vero e proprio contratto terapeutico che si baserà sulla definizione operativa del problema e sulle tentate soluzioni messe in atto fino a quel momento.
  4. Prescrizioni e dei compiti, durante la quale il terapeuta darà delle direttive specifiche alla famiglia da seguire.

La conclusione della seduta

In conclusione della seduta è essenziale, tra l’altro, che il terapeuta valuti se al successivo colloquio dovrà essere presente qualche altro membro della famiglia che non era stato coinvolto e si accerti che i compiti/prescrizioni assegnate, siano state comprese chiaramente.

È quanto mai importante, infatti, che le prescrizioni vengano “date” con chiarezza e non semplicemente “suggerite” come indicazioni utili. Allo stesso tempo, un’altra manovra utile, potrebbe essere quella di ricapitolare per accertarsi che tutti abbiano compreso.

Infine, affinché la famiglia aderisca ai compiti assegnati, alcuni suggerimenti utili potrebbero essere di prospettarne i vantaggi (in termini di cambiamento), iniziare attraverso delle manovre indirette se la famiglia appare poco collaborativa, sperimentare qualche piccolo compito già in seduta e soprattutto definire l’impegno richiesto (ad esempio, se sarà un compito facile o difficile).

 

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Riferimenti bibliografici

Haley, J. (2010). Terapia del problem solving, Milano: Franco Angeli

Halay, L. (1976). Terapie non comuni: tecniche ipnotiche e terapia della famiglia, Roma: Astrolabio.