[Il caso clinico in questione NON è reale. Si tratta di un esempio che prende spunto da più situazioni modificate e rese irriconoscibili]

 

F. è una donna di 50 anni, lavora come OSS in una struttura. Si rivolge a me perché sente la necessità di intraprendere un percorso perché ha iniziato ad avere nuovamente attacchi di panico, alla stregua di altri periodi della sua vita passata, questa volta però non vuole mettere a repentaglio il suo lavoro e la sua relazione.

 

F. arriva nel mio studio in ritardo e trafelata si siede sulla poltrona anzi sprofonda nella seduta e inizia a piangere, le do un fazzoletto e la faccio calmare. Mi ha accennato telefonicamente mentre chiedeva l’appuntamento che è invasa dall’ansia. Si siede e inizia a raccontarmi mi subito che sente che i “maledetti “attacchi di panico stanno tornando con la stessa frequenza di circa sette anni fa.

Entro nel vivo e approfitto del momento in cui si schiarisce la voce, per fare una DEFINIZIONE DEL PROBLEMA strutturata e precisa, tanti sono i dettagli e i particolari che F. già ha narrato ma strutturata ma per aiutarla dobbiamo fare ordine nei pensieri.

La lascio ancora un attimo divagare perché capisco che è attraversata profondamente da un misto di paura ma anche soddisfazione per aver trovato il coraggio di essere qui da me e anche una agitazione mista a vergogna, le sue amiche dicono che dallo psicologo “ci vanno i matti”.

Sdrammatizzo empatizzando con lei e mi metto al lavoro.

Mi racconta che l’attacco di panico arriva nel momento in cui pensa che sta perdendo il fidanzato, mi faccio spiegare meglio non appena si sente in pericolo nella relazione uomini e avverte che le cose stanno andando male e loro si stanno allontanando da lei, inizia e manifestare palesemente attacchi di panico. Come si manifesta l’attacco di panico: battito cardiaco accelerato, respiro forzato, testa offuscata e sensazione di perdere il controllo anzi mi specifica a mia domanda paura di impazzire.

Mi racconta che questo è lo schema che introduce involontariamente come reazione alla paura della perdita dell’amato, ha sempre funzionato così, anche in passato.

“Ho paura che lui si sta allontanando e vado nel panico più totale, tanto da essere finita al pronto soccorso diverse volte e da essere stata soccorsa in stato confusionale non poche volte.”

Sono circa 14 anni che le cose vanno avanti così, aggiunge. Se è in compagnia del fidanzato si sente rassicurata e tranquillizzata ma appena lui si allontana per un lasso di tempo, secondo lei, non ragionevole o dedica interesse e attenzione ad attività che non la coinvolgono lei va nel panico e inizia a manifestare tutti i sintomi soprariportati.

Dice che l’origine di tutto è l’abbandono da parte dei genitori quando era piccola, aggiunto al fatto di essersi allontanati dalla propria regione e è convinta che questo migrare, la mancanza di radici la ha resa ancora più insicura.

Si sofferma sul fatto che la sua insicurezza il suo attaccamento agli uomini la portano a avere poca stima di sé e a non trovare le risorse per uscire dalla situazione. Le finestre che apre nel racconto sono diverse e alcune volte insiste sulla separazione dai suoi genitori così precoce, le chiedo a questo punto esattamente su cosa vuole lavorare.

Mi dice che vuole lavorare sull’attacco di panico perché in passato le ha fatto perdere occasioni importanti e anche un lavoro e non vuole ritrovarsi nella stessa situazione di un tempo.

L’OBIETTIVO DELLA TERAPIA è quindi eliminare gli attacchi di panico, mi dice che essere più autonoma e questo sarà il secondo obiettivo che vuole raggiungere, ma ora non ha lucidità vuole essere “libera dalle catene del panico”. Le chiedo a questo punto, dopo aver stabilito un obiettivo di terapia quale potrebbe essere il primo paso da fare per poter avvicinarsi al suo obiettivo e mi dice che vorrebbe trovare un modo per non perdere il controllo e non impazzire.

Riprende a piangere si dice spaventata perché lei sa che cosa ha provato in passato e quanto è stato alto il prezzo da pagare e quanto non averli affrontati la fa ripiombare sempre nella stessa “melma “ed invischiata sempre negli stessi meccanismi.

Indagando il funzionamento del problema le chiedo cosa fa per fronteggiare gli attacchi di panico (TENTATE SOLUZIONI DISFUNZIONALI).

F. mi dice che chiede aiuto al suo fidanzato o chi le sta a tiro e che parla ormai continuamente di questi attacchi e delle sue paure per sfogarsi nella struttura dove lavora con le amiche, i colleghi, il suo capo e con i suoi familiari. Ore ed ore passate al telefono, ormai tutti sanno che sta male e che gli attacchi potrebbero arrivare da un momento all’altro.

Mi dice che lei sa che così facendo non ottiene nulla, che lei sa che non è così che uscirà dalla situazione, ma mi dice che non riesce. Mi racconta che sta evitando tutte le situazioni sociali di uscita, che si è chiusa in casa con il suo cagnolino che tratta come un figlio, ormai i figli sono grandi e sono lontani e hanno la loro vita in un’altra città, si sente sola ed isolata.

Ricerca aiuto e protezione, tiene costantemente sotto controllo le su reazioni fisiologiche: si misura la pressione, il battito, va dal medico più spesso del solito. Tiene un farmaco che chiama salva attacco nel cruscotto della macchina, uno lo mette in borsa e uno nello scaffale della camera vicino al letto.

Non vuole più uscire, se non con il fidanzato, ha paura di avere gli attacchi di panico, guida a fatica o, meglio, il meno possibile per non trovarsi poi nell’ipotesi di avere un attacco improvviso per cui ha rallentato le sue attività.

F. si rende conto che senza chiedere aiuto non riesce a vivere e si sente dipendente e svilita come persona. Ci avviciniamo verso il termine della seduta che è stata interrotta ampiamente da pianti incontrollati, singhiozzi, da sospiri profondi e respiri lenti.

Le riformulo tutto quello che ci siamo dette sinora, chiedendole di integrare se avessi dimenticato qualcosa di rilevante e qualcosa che lei ritiene ancora importante per il funzionamento del problema. Mi dice che siamo in linea con tutto quello che mi voleva dire e mi chiede di aiutarla nel più breve tempo possibile per uscire dall’incubo.

Le comunico che da qui alla prossima volta che ci vedremo, cioè, tra quindici giorni, dovrà svolgere dei compiti (PRESCRIZIONI). Utilizzo un linguaggio fortemente evocativo e mi soffermo sulle metafore che utilizzo per le ristrutturazioni che le faccio sulla sua richiesta di aiuto e di rassicurazione.

Le prescrivo il diario di bordo che introduco come uno strumento di monitoraggio dei vari episodi di panico e le prescrivo la congiura del silenzio per il blocco della comunicazione.

La saluto dandole appuntamento dopo due settimane.

 

Scarica gratis l'ebook sulle Terapie Brevi