“Qual’è la natura del tempo? Giungerà mai ad una fine? Possiamo tornare indietro nel tempo? Un giorno forse queste parole ci sembreranno ovvie come la Terra che orbita intorno al sole o magari ridicole come una torre di tartarughe. Solo il tempo, qualunque cosa sia, ce lo dirà”. Questo diceva Stephen Hawking a proposito del tempo.
Ma in terapia quanto è importante il tempo?
Sebbene sia opinione comune che la buona riuscita di una psicoterapia dipenda dalla durata della stessa, sono molte ormai le voci in controtendenza.
Ad oggi infatti non esistono studi che dimostrano l’esistenza di una rigorosa relazione tra tempo e risultati ottenuti dalla persona.
Ma quanto deve durare una terapia per essere davvero efficace?
Per rispondere abbiamo scelto le parole di Haley, padre della Terapia Strategica Familiare (insegnata nella Scuola di Specializzazione in Psicoterapia Breve Sistemico-Strategica). Egli affermava:
“Alcune persone vorrebbero una stima della lunghezza della terapia; è meglio rispondere che la terapia sarà quanto più breve possibile per risolvere i loro problemi” (Haley, 1977).
Lo stesso autore, ma anche altri (Lazarus, 1971), sostiene che anche una singola sessione di terapia può servire ad iniziare un processo di cambiamento poiché può rappresentare tutto ciò di cui la persona necessita in quel momento.
Questo modo di concepire l’intervento psicoterapeutico sembra cozzare fortemente con molti approcci oggi esistenti e altrettanto efficaci.
Eppure non sono in realtà così distanti. Basti pensare ad esempio ad alcuni casi, quello di Katharina (Freud, Breuer, 1893) e quello del compositore Mahler (Talmon, 1990), che Freud risolse in un unico incontro.
Chiaramente, valutando il contesto di queste sedute capiamo che si arrivò all’unico appuntamento per “cause di forza maggiore”. Se i clienti fossero stati incontrati nel setting classico, probabilmente Freud li avrebbe tenuti in cura per un tempo maggiore.
Parlando sempre di similitudini diverse ricerche hanno evidenziato che terapeuti che hanno orientamenti diversi condividono comunque delle modalità e delle strategie simili per gestire ad esempio la conclusione di un percorso con un paziente. La ricerca ha infatti evidenziato 5 fattori comuni che caratterizzano in modo trasversale i diversi modelli di riferimento come ad esempio l’elaborazione della dimensione emozionale, la discussione relativa al futuro, il sostenere ed il motivare il paziente nell’utilizzare le nuove competenze acquisite nella vita quotidiana, il sostenere strategie di coping, l’analizzare insieme i vantaggi ottenuti.
Terapie brevi vs terapie lunghe?
Il senso non è terapie brevi vs terapie a lungo termine ma è porsi nei confronti della persona che richiede aiuto in modo flessibile.
Per noi di Istituto ICNOS ciò significa adottare un mindset, ovvero un’attitudine, una disposizione, un modo di percepire che determina il modo di fare, adeguato alle necessità di ciascuna persona.
Per questo i docenti della scuola mirano ad insegnare ai propri allievi ad approcciarsi con lenti sempre diverse ai clienti al fine di vedere in essi persone portatrici di bisogni e non di problemi.
Si tratta cioè di abbandonare credenze e atteggiamenti derivati da esse, che comprendono il modo stesso in cui osserviamo le persone durante le sessioni di terapia.
Quando il cambiamento può avvenire in breve tempo!
La letteratura ritiene che tutti gli approcci di psicoterapia sono efficaci e che, tendenzialmente, non esistono differenze significative nei risultati raggiunti. Ci poniamo allora una domanda:
Perché impiegare tanto tempo quando lo stesso risultato può essere raggiunto in breve tempo?
Seymour Sarason (1988), professore di psicologia alla Yale University, afferma che in determinate condizioni, determinate persone con determinati problemi possono, in modo relativamente rapido (a volte anche in una sola seduta), sperimentare dei cambiamenti importanti e duraturi, che sfuggono in qualche modo alla teoria.
Può succedere, infatti, che pochi incontri, o anche uno soltanto, siano sufficienti a risolvere un problema o, al contrario, che ne servano diversi.
Può anche succedere che la persona, pur facendocela benissimo da sola, avverta di tanto in tanto la necessità di appoggiarsi a qualcuno che lo sorregga nei momenti più difficili o qualcuno con cui semplicemente condividere i propri successi o commentare la strada percorsa.
Una terapia da prendere al bisogno insomma? Si, ma anche una terapia che punti all’autonomia attraverso la valorizzazione delle risorse e la restituzione di competenze già in possesso della persona.
Bibliografia
Cannistrà F., Piccirilli F. (2018), Terapia a Seduta Singola. Principi e pratiche. Giunti editore