Fase iniziale

Sara è una donna sulla quarantina, pragmatica e intraprendente. Al nostro primo contatto telefonico mi riporta un problema nella gestione di sua figlia Rebecca, di anni tredici. Mi spiega che vorrebbe portarla in terapia ma che, nonostante le sue ripetute richieste, lei non fa che resistere.

Le chiedo se è disposta ad incontrarmi prima da sola, per illustrarmi per bene quali sono le sue preoccupazioni e poi valutare insieme come procedere. Acconsente e fissiamo l’appuntamento dì a qualche giorno.

Sara arriva puntuale, già commossa al pensiero di dover parlare di sua figlia. La faccio accomodare, le chiedo se ha bisogno di qualcosa, e tra un convenevole e l’altro comincia la nostra seduta.

“Bene, Sara. Al telefono mi dicevi che hai dei problemi a gestire tua figlia Rebecca. Puoi provare a spiegarmi che cosa intendi?”

Prima di rispondere, Sara trova che sia utile farmi un quadro della loro situazione familiare.

Da circa un anno e mezzo lei e il marito hanno divorziato e hanno deciso per l’affidamento congiunto di Rebecca, la loro unica figlia. La piccola vive con la madre durante la settimana, mentre trascorre i week-end con il padre, trasferitosi in un paesino adiacente: questa organizzazione è stata decisa come “la più comoda” per Rebecca, affinché le fosse garantita una certa continuità con gli impegni scolastici e con l’attività sportiva.

“Il problema è che quando Rebecca sta con il padre, lui le lascia fare tutto quello che vuole e quando invece sta con me, sono io la cattiva. È costantemente arrabbiata, risponde male e mi disobbedisce”.

Chiedo a Sara di farmi degli esempi, voglio capire quando e come Rebecca si arrabbia, risponde male e disobbedisce. Succede sempre o solo in alcune circostanze? Quando sono sole o in presenza di altri? Ci sono volte in cui, invece, ciò non succede?

Fase intermedia

Riconosco che, per quanto consensuale, il divorzio ha comportato per Sara grandi cambiamenti e la situazione che sta vivendo attualmente non dev’essere affatto facile né per lei né per Rebecca.

Conveniamo che resistere alla madre può significare per Rebecca tante cose: i suoi comportamenti possono seguire una motivazione diversa da quella che immagina Sara, e proprio perché non possiamo rivolgerci a Rebecca in quel preciso momento né possiamo tenere a bada i suoi comportamenti con uno schiocco di dita, quasi per magia, propongo a Sara di individuare un obiettivo preciso sul quale io e lei ci possiamo concentrare durante il nostro incontro.

Le spiego, infatti, che purtroppo non possiamo cambiare gli altri, e nel suo caso specifico l’atteggiamento oppositivo della figlia o l’atteggiamento troppo permissivo del suo ex compagno, ma possiamo provare a dare un senso al tempo che ha deciso di trascorrere con me.

Perché, forse, con il suo resistere, Rebecca potrebbe averle fatto un dono prezioso: le ha permesso di venire in terapia per far luce sul suo modo di vedere la realtà e di agire in essa.

Sara si illumina, la mia rilettura del suo problema le piace ma non può fare a meno di chiedermi: “Come ne esco, dottoressa, se per ogni cosa che dico o faccio, ottengo solo il peggio da mia figlia?”

“Facendo un passo alla volta.”, le rispondo e prontamente le chiedo “Tu come reagisci quando ottieni il peggio da lei?”

“Mi impunto, perché sono la mamma e so di aver ragione”.

“Quindi resisti.”

“Sì, resisto”, Sara abbozza un sorriso amaro.

“Resistere non significa necessariamente mettersi sul piede di guerra perché non si vuol cedere terreno all’altro: a volte può essere un modo per esprimere e portare avanti le proprie ragioni, i propri valori o i propri bisogni… secondo te può essere questo il vostro caso?”

Fase finale

Sara mi dice che forse, a furia di sgridare Rebecca e di alimentare lo scontro reciproco, ha perso di vista la possibilità di arrivare con lei a una sorta di compromesso. Si rende conto di immaginare quali possano essere i limiti, i disagi, i valori, o i bisogni della figlia ma che forse non li conosce davvero: tra loro non parlano, ma urlano e si resistono.

Per riportarla alla definizione di un obiettivo per la nostra seduta, affinché io possa aiutarla fin da subito, in maniera efficace ed efficiente, le dico che un certo Steve De Shazer, padre della Terapia Breve Centrata sulla Soluzione, sosteneva che la resistenza è già una forma di cooperazione: resistere diventa, infatti, il modo in cui una persona ci sta comunicando ciò che per lei non funziona. E se quello che facciamo con lei non funziona, non ci resta che provare a fare qualcos’altro.

Sara sceglie, pertanto, come obiettivo della seduta, di trovare quel qualcos’altro da fare che le permetta di imboccare la direzione giusta con la figlia e che riduca la tendenza a resistere di entrambe.

Ripercorriamo insieme alcuni episodi nei quali Sara è riuscita a non rispondere a tono a Rebecca o nei quali è riuscita a mantenere la calma nonostante dentro stesse ribollendo di rabbia. Valutiamo quale delle soluzioni adottate potrebbero tornarle nuovamente utili e ci promettiamo di verificarne l’effetto da lì a due settimane.

Trascorso quel tempo, decidiamo per un follow-up telefonico. Sara mi riporta di aver sperimentato le soluzioni già adottate in precedenza, di averne trovate delle nuove e che i motivi, e di conseguenza, i momenti di conflitto con Rebecca si sono notevolmente ridotti.

Mi congratulo per i miglioramenti ottenuti e incoraggio Sara a continuare così, facendole presente che, nel caso torni a resistere, la mia porta è sempre aperta.

 

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RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI

Cannistrà, F., & Piccirilli, F. (2018). Terapia a seduta singola. Principi e pratiche. Giunti Editore Firenze

De Shazer, S. (1984). The death of resistance. Family process23(1), 11-17

Rivers, L., & Young, L. (2019). Understanding the mother-daughter relationship in brief therapy: A case series. Journal of Family Psychology, 33(4), 452-465. doi: 10.1037/fam0000491