Il linguaggio del cambiamento

Questo articolo si focalizza sull’importanza del linguaggio della psicoterapia per l’utilizzo delle prescrizioni comportamentali.

Non il linguaggio come semplice mezzo di espressione, bensì il linguaggio come arte di persuasione. Esistono due realtà: quella oggettiva, esterna, e l’altra che è il risultato delle nostre opinioni sul mondo.

La loro sintesi determina convinzioni, pregiudizi, valutazioni e distorsioni, ossia, per dirla con Watzlawick, “la nostra immagine del mondo”

Gli interventi di psicoterapia strategica tendono a modificare questa immagine e, in particolare, quando si parla di psicoterapia, “l’immagine del mondo che produce dolore”.

Lo scopo di questo articolo è quello di illustrare l’importanza della comunicazione analogica per persuadere il paziente e poter superare le proprie resistenze al cambiamento  attraverso delle  prescrizioni comportamentali.

Linguaggio strategico, ipnotico e performativo.

La psicoterapia strategica si differenzia dalle altre psicoterapie (psicanalitiche, rogersiane, comportamentali e cognitive) poiché l’intervento dello psicoterapeuta è diretto, attivo ed energico, o meglio indirettamente diretto. Pertanto, il linguaggio adoperato nella comunicazione strategica è suggestivo ed ingiuntivo.

Le prescrizioni comportamentali sono delle tecniche comunicative e comportamentali utilizzate dal terapeuta per aggirare le resistenze del paziente e creare cambiamenti.

Non sempre il paziente è collaborativo, anzi, proprio attraverso i suoi blocchi emotivi disfunzioni rifiuta le proposte di cambiamento ordinarie del terapeuta che altererebbero il sistema patologico (tentata soluzione). Per questo è importante utilizzare una  comunicazione strategica e un linguaggio analogico per aggirare le resistenze e stimolare la rottura e la costruzione di nuove soluzioni

L’impiego di  questi strumenti terapeutici da parte del terapeuta passa attraverso un “evento casuale pianificato”, ovvero un evento in grado di produrre l’esperienza di “un’emozione correttiva”, che nasconde in sé elementi in grado di raggiungere e modificare metaforicamente il paziente (Skorjanec, 2000).

La comunicazione strategica è sempre orientata al cliente e non può che focalizzarsi sul problema portato in terapia. Il linguaggio deve adattarsi al modo di esprimersi e di relazionarsi del paziente. Utilizzare ad esempio metafore “dotte” con pazienti provenienti da un contesto socio-culturale umile, si rileva di grande inutilità, oltre che controproducente ai fini della ristrutturazione percettiva della realtà.

Le prescrizioni comportamentali

Le prescrizioni comportamentali adoperate dal terapeuta strategico possono essere di tre tipi: dirette, indirette o paradossali.

  • Dirette: Sono dichiarazioni ingiuntive che il terapeuta esplicita chiaramente. Questo tipo d’ingiunzioni possono avanzare richieste di comportamenti sia all’interno della seduta, che come compiti da svolgere al di fuori della cornice terapeutica e possono percorrere strade trasversali per raggiungere l’obiettivo principale.
  • Indirette: mirano a distogliere l’attenzione dell’individuo dal problema che provoca sensazioni d’angoscia ed impotenza, rivolgendosi ad altri compiti che sono ritenuti dal terapeuta attuabili secondo le capacità del paziente. Ciò non significa fuggire dal problema, ma dimostrare che un’altra realtà è possibile. La funzione positiva di tali prescrizioni è quella di focalizzarsi sulle possibili risorse del paziente.  Giungere a questo traguardo non è impresa facile, né cosa da poco. È proprio qui che il linguaggio persuasivo può svolgere un ruolo importante.
  • Paradossali: svolgono la funzione di suscitare il sintomo del paziente in modo volontario. Questo atto terapeutico ha la conseguenza cruciale di dare un senso di padronanza del problema e non più, semplicemente, di subirlo in modo inconsapevole (Gulotta, 1997; Petruccelli, 1999). Il sintomo attraverso l’utilizzo del paradosso è rivolto contro se stesso; più che un deficit diviene un’arma, nelle mani del terapeuta prima e del paziente poi.

Se si prescrive ad un soggetto claustrofobico un’esperienza che evoca il restare chiusi in un luogo angusto, si sta in quel momento agendo su un livello di realtà diverso da quello specifico del problema, ma si ottengono risultati anche e soprattutto sul piano della realtà che provoca il disagio nell’individuo e che s’intende modificare” (Gulotta, 1997).

L’esempio di Erickson

Possiamo prendere esempio da una esperienza terapeutica del grande ipnoterapeuta statunitense Milton Erickson. Erickson aveva a che fare con una donna che non solo interrompeva continuamente, ma inoltre il più delle volte risponde al posto del marito prima che questi avesse il tempo di aprire bocca, le disse più o meno ciò che segue:

“vorrei ancora sentire il punto di vista di suo marito, ma lei continua a parlare. Mi rendo conto che questo dipende dal suo desiderio di aiutarmi a capire. ma… a mica un  rossetto?”. Ora forse le sembrerà ridicolo, ma dovrebbe tenere il suo rossetto così te le faccio vedere che lo deve tenere in modo che la punta fiori appena le labbra. “Lo tenga così sfiorando leggermente le labbra. Io farò qualche domanda a suo marito e vorrei che lei stesse attenta a tutti i movimenti delle sue labbra. Penso che lo troverà molto interessante.”

Nella discussione di questo intervento Ericsson spiega: “ in questo modo do alle sue labbra un uso legittimo: in genere non lo capiscono, ma lo trovano piuttosto divertente”

Le tipologie di pazienti

Si possono distinguere diverse categorie di pazienti con i quali dovrà variare il modo di comunicare del terapeuta. Skorjanec (2000) riprende la distinzione originaria di Nardone, che prevedeva quattro classi di soggetti:

  • collaborativi
  • potenzialmente collaborativi
  • oppositivi
  • incapaci sia di collaborare che di opporsi.

In questo articolo ci focalizzeremo solo sui soggetti potenzialmente più collaborativi e gli oppositivi che sono quelli con cui maggiormente è consigliabile l’utilizzo della comunicazione performativa.

La caratteristica predominante sembra essere la rigidità ad abbandonare determinati stili comportamentali, pur se le risorse individuali e sociali ne lasciano intravedere la possibilità di modifica.

La comunicazione sposta l’attenzione eccessiva che questi pazienti riservano al sintomo e al tentativo di controllarlo. Molte volte, infatti, è questo l’unico pensiero che pervade l’intera giornata trascorsa da questi pazienti.

Aiutare a pensare in modo “divergente” permette di apprendere una serie di atteggiamenti che lasciano la possibilità di liberarsi da “fissità mentali” che impediscono una visione multimodale della realtà e delle alternative di scelta presenti nel contesto (Gulotta, 1997).

Naturalmente tutte le prescrizioni vanno calzate su misura, contestualizzate alla realtà del paziente e adattate alla sua situazione.

Inoltre il terapeuta esperto capirà come vanno calzate con un linguaggio specifico poiché, come gli stessi autori citati hanno notato, la difficoltà maggiore sta nel far accettare al paziente di mettere in atto, seppur temporaneamente, proprio il comportamento di cui vogliono liberarsi.

Questo è il motivo per cui ci si è molto soffermati sullo studio e sull’apprendimento di quello che viene chiamato “linguaggio del cambiamento” (Watzlawick, 1977).

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Riferimenti Bibliografici

Watzlawick, P. (1977). Il linguaggio del cambiamento. Milano: Feltrinelli, 1980.

Gulotta, G. (2005) Lo Psicoterapeuta Stratega. Metoi ed esempi per risolvere i problemi del paziente. Franco Angeli

Watzlawick, P., Weakland, J.H. & Fisch, R. (1974). Change. Sulla formazione e la soluzione dei problemi. Roma: Astrolabio, 1974.