Un aspetto interessante del concetto di Resistenza è che non trova una definizione all’interno di un quadro teorico specifico, ma fa parte dell’apparato concettuale di diversi approcci psicoterapeutici.
Il primo a parlare di Resistenza nell’ambito della psicoterapia fu Sigmund Freud, se ne trovano le prime tracce negli Studi sull’isteria del 1895. Freud la definì “il miglior ostacolo al lavoro terapeutico”.
La resistenza, secondo l’approccio Psicoanalitico rappresenta un ostacolo all’emersione dei sintomi, alla presa di coscienza del paziente, al proseguimento e al buon esito del percorso di cura poiché si frappone tra la persona ed il cambiamento auspicato.
In questo senso la resistenza, conscia o inconscia che sia, rappresenta quella forza che non permette al paziente di raggiungere la guarigione, come se lo stesso “volesse” restare a convivere con il proprio disagio o con il proprio assetto sintomatologico.
A partire dalla concezione psicoanalitica di resistenza, si sono susseguite diverse sfumature teoriche differenti nei diversi modelli.
Per i cognitivisti resistenza, nella definizione di Guidano, è “l’espressione delle continue oscillazioni comunemente riscontrabili in qualsiasi sistema complesso durante un processo di trasformazione” (Guidano, 1988, 248). Ripercorrendo la letteratura relazionale sistemica il termine invece viene solitamente utilizzato per indicare la tendenza omeostatica del sistema, la tendenza cioè a mantenere un equilibrio raggiunto.
Sebbene i modelli sopra citati differiscano tra loro da un punto di vista teorico, su un piano meramente pragmatico sembrano essere invece più convergenti di quanto si pensi. Infatti, così come per gli psicoanalisti resistenza è l’opposizione del paziente ad accettare le interpretazioni fatte dall’analista (Reber, 1985), per i cognitivisti essa include le obiezioni più o meno esplicite alle prescrizioni e spiegazioni del terapeuta, le ricadute che insorgono subito dopo il raggiungimento di cambiamenti desiderati e i resoconti relativi a difficoltà temute o previste all’interno di alcune relazioni interpersonali significative (Liotti, 1984 cit. in Guidano, 1988). Analogamente, per i sistemici sono classificabili come resistenza la intensificazione del pattern relazionale che è ritenuto alla base del problema, la sostituzione del sintomo, la non esecuzione di un compito da parte della famiglia, la negazione o il rifiuto delle prescrizioni o spiegazioni del terapista.
Resistenza nella terapia breve
Nell’ambito delle Terapie Brevi, come insegnano i docenti di ICNOS Scuola di Specializzazione in Psicoterapia Breve Sistemico-Strategica, il termine resistenza viene usato per connotare un atteggiamento del paziente, o meglio il modo in cui la persona che abbiamo di fronte in quel determinato momento ci dice cosa può e vuole fare per cambiare.
In questa innovativa rivalutazione delle resistenze, queste vengono considerate come comportamento da rispettare, piuttosto che da svalutare e considerare come un tentativo deliberato, o inconscio, di opporsi al terapeuta. La resistenza viene accettata in quanto comunicazione di importanza vitale riguardo ai problemi dell’individuo e, addirittura, un modo in cui soggetti collaborano alla loro stessa terapia, secondo le loro necessità e i loro modelli interattivi
Ecco quindi che la Resistenza diventa una risorsa. Essa, se ben colta e osservata dal terapeuta, diventa una indicazione pratica della strada che la persona intende percorrere nella terapia.
I Terapeuti Brevi dunque vedono nelle resistenze delle opportunità laddove gli altri vedono ostacoli verso il raggiungimento del cambiamento auspicato, aiutando le persone a immaginare cosa c’è oltre il problema che raccontano.
La resistenza come strumento di cambiamento
“È nel momento in cui mi accetto così come sono che io divengo capace di cambiare” diceva Carl Rogers.
Pensare alla resistenza in termini di risorsa e non come ostacolo nel processo terapeutico ci invita a fare alcune riflessioni importanti relativamente al cambiamento:
- Ogni persona cambia con il proprio ritmo: il terapeuta può mettere in atto strategie e tecniche volte ad accelerare il cambiamento terapeutico ma sono le persone le vere responsabili del successo della terapia.
- Cambiare implica l’abbandono di vecchi modi di comportarsi e l’acquisizione di nuove modalità di comportamento e pensiero che sarà la persona a sperimentare direttamente e a giudicare come funzionali o meno al proprio benessere.
- “La soluzione è il problema”: spesse volte le persone non fanno altro che reiterare comportamenti che piuttosto che essere risolutivi della propria condizione problematica si rivelano causa del problema stesso in quanto continuano ad alimentarlo. Questi comportamenti non rappresentano forme di resistenza al cambiamento bensì “tentate soluzioni disfunzionali”.
La capacità di utilizzare le resistenze al cambiamento a vantaggio del cambiamento stesso rappresenta un fattore distintivo delle Terapie Brevi.
Simonetta Bonadies
Psicologa, Psicoterapeuta
Team dell’Italian Center
for Single Session Therapy
Bibliografia
- Cannistrà F., Piccirilli F. (2018). Terapia a Seduta Singola: principi e pratiche. Giunti editore
- Fruggeri L. (1990), “Dalla individuazione di resistenze alla costruzione di differenze. Riflessione sui processi di persistenza e cambiamento in psicoterapia” Psicobiettivo, X(3), pp. 29-46.
- Hoyt M.F., Talmon M. (2018). Capturing the moment: Terapia a seduta singola e servizi walk-in. CISU Editore
- Hoyt M.F. (2018). Psicoterapie Brevi: Principi e pratiche. CISU Editore
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