La parola che ci diciamo: una finestra aperta da e verso la propria interiorità

Il linguaggio, che si intreccia nel dialogo mediante “la parola”, quella specifica parola che emerge e viene scelta per descrivere al meglio ciò che si vuole esprimere, è una finestra che affaccia su ciò che è interiore alla persona.

Ciò che proviene e arriva alla persona dall’esterno, dalla sua esperienza, viene consciamente o inconsciamente “trasferito” alla coscienza, alla psiche e trasformato in qualcosa che è interiore alla persona. In questo processo di introversione, la realtà esterna viene rispecchiata nella coscienza.

Tale rispecchiamento, tuttavia, non produce una riproduzione identica ma bensì risulta sempre frutto di una rielaborazione da parte della coscienza stessa della persona (Cassirer, 2003).

Infatti, la “congiunzione di un molteplice” è un atto della spontaneità della facoltà di rappresentare (Kant, 1781).

Ciò che emerge dall’interiorità porta con sé un accompagnamento emotivo. Ne risulta che il linguaggio, “la parola”, si estrinseca coadiuvato da scelte terminologiche, toni, intonazioni, vibrazioni e silenzi tanto esplicativi e comunicativi quanto “la parola” stessa.

In quanto finestra su due mondi, interiore ed esteriore, la parola e la scelta terminologica può portare con sé – come un messaggio scritto su un foglio di carta piegato ad aeroplano e portato dal vento alla finestra – un’apertura ad una “possibilità”. La “possibilità”, nell’accezione astratta del termine, viene veicolata dal linguaggio ed entra in dialogo con “la parola” interna, permettendo un affaccio su nuove prospettive.

Il linguaggio delle possibilità

Il “linguaggio delle possibilità” ha il merito di far emergere un equilibrio tra uno stato di accettazione, rappresentato dallo stato attuale della persona, e uno stato di cambiamento.

Pragmaticamente, il linguaggio delle possibilità si articola nell’attuazione mediante l’impiego di tecniche atte alla destrutturazione e ri-assemblamento delle narrazioni della persona al fine di accompagnare e favorire il cambiamento.

La “parola” interna, ossia il dialogo interno e il modo col quale la persona “parla” di sé e della propria vita ha un riverbero e un’influenza sui sentimenti stessi in modo sottile e profondo (Hanlon e Beadle, 2005 p. 21) – come un sasso lanciato su un lago, che increspa l’acqua e al contempo con lentezza e “dedizione” erode una roccia che cinge il lago.

L’instaurarsi di nuove “parole” all’interno del linguaggio interiore, dunque un cambiamento nel dialogo interiore, comporta, anche per un effetto sommatorio, differenze notevoli nel vissuto emotivo esperito ed esternato, nonché nei comportamenti (Hanlon e Beadle, 2005 p. 21).

La parola che comprende: il linguaggio in psicoterapia

Il terapeuta ha il compito di accogliere ed aiutare la persona nell’ascolto del proprio dialogo interiore, nonché di fornire uno spiraglio attraverso le “nuove parole” su un ventaglio di possibilità articolate dal nuovo linguaggio interno.

A sottolineare l’importanza del dialogo tra paziente e terapeuta, le mere tecniche terapeutiche impiegate risultano influenzare esclusivamente il 15% della terapia (Lambert, 1992).

All’interno della psicoterapia il linguaggio si articola mediante quattro strumenti: l’ascolto, la comunicazione, la relazione e il silenzio.

L’ascolto in terapia è attivo, in quanto atto alla canalizzazione della comunicazione dell’altro laddove sia necessario porre in luce determinate “parole” e al contempo è passivo, quando permette alla persona di esercitare una comunicazione più ampia e un’emersione di maggiori parole.

La comunicazione in terapia è un invito alla riflessione, ad osservare le proprie risorse e accompagna un invito alla ristrutturazione del problema o quesito portato in terapia. La comunicazione permette inoltre di ri-formulare, ossia di comprendere e trasformare, il quesito portato in terapia e far sentire l’altro compreso, nonché di comprendersi. La comunicazione è fatta anche di un linguaggio condiviso, di “parole” condivise tra terapeuta e persona.

La relazione all’interno della terapia si esplica nella comprensione dell’altro e del suo mondo interiore, accettato come “verità” in sé. Il linguaggio, condiviso, che ne deriva è una chiara esplicazione di tale comprensione e soprattutto del relativo riconoscimento.

Il silenzio, colonna portante apparente paradossale della conversazione, è uno strumento di riflessione, nonché terreno di elaborazione e fioritura di emozioni intense. In termini di linguaggio condiviso, il silenzio del terapeuta di fronte al silenzio del paziente è accoglienza e segno di rispetto per tale elaborazione.

La parola accolta: il rispecchiamento attraverso il linguaggio

Il terapeuta entra e partecipa ai modelli verbali della persona attraverso un’opera di rispecchiamento di linguaggio, in termini di parole utilizzate, frasi, intonazioni e ritmi (Hanlon e Beadle, 2005 p. 26).

È proprio in questo senso che il terapeuta diviene uno specchio limpido che rimanda e fa osservare alla persona ciò che emerge dal profondo, dalla sua “parola” interna. Il rispecchiamento di toni e intonazioni, tipici elementi strettamente affini ai moti emotivi, permette inoltre ai due di sincronizzare la conversazione in un’unica melodia armonica.

Al contempo, il terapeuta accogliendo e riproducendo nel dialogo quella “parola” interna della persona, ne sottolinea l’accettazione e il riconoscimento, creando un canale comunicativo ed emotivo condiviso e percorribile.

Il rispecchiamento consente di conferire all’altro l’impressione di vicinanza, accoglienza e maggiore comprensione. L’espressione “parlare la stessa lingua” ne è un chiaro esempio (Hanlon e Beadle, 2005 p. 26).

Tale attenzione alla narrazione e “parola” interna della persona viene esplicata sapientemente dall’opera di Jung riguardante in particolare i casi più severi in cui la parola interna convergeva con metafore e simbolismi in modo astratto e apparentemente senza finestra di dialogo:

«Uno dei principali interessi di Jung fu la ricerca del significato delle verbalizzazioni dei pazienti. Non accettava, ancora una volta, che ciò che i pazienti dicevano fosse privo di senso perché proveniva da persone folli; Jung tentava invece di scoprire l’unicità del suo significato. Anche con i pazienti cronici, [..] Jung scoprì un senso in ciò che andavano dicendo, “che fino ad allora era stato considerato privo di significato” (Jung, 1978). Una paziente, per esempio, soleva urlare: “Sono la rappresentante di Socrate”, e Jung scoprì (indagando attentamente la sua personalità e le circostanze) che «voleva dire: “Sono accusata ingiustamente come Socrate” (Jung, 1978)».

Tale lavoro incentrato sull’attenzione, ascolto e rispecchiamento del linguaggio si è dimostrato elicitare, non solo accoglienza, ma al contempo benefici e risoluzione nel trattamento (Papadopoulos, 2009).

 

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Bibliografia:

Cassirer, E. (2003). Il Linguaggio e la costruzione del mondo oggettuale. Il linguaggio e la costruzione del mondo oggettuale, 1000-1027.

Jung, C. G., Jaffè, A., Russo, G., & Daniele, S. (1978). Ricordi, sogni, riflessioni. Rizzoli.

Kant, I. (2005). La critica della ragion pura (1781). natura, 7(5), 12.

Lambert, M. J. (1992). Implications of outcome research for psychotherapy integration. In C. Norcross & M. R. Goldfried (Eds.), “Handbook of psychotherapy integration” (pp. 94-129). New Jork: Basic Books.

O’Hanlon, B., & Beadle, S. (2005). Psicoterapia breve. 51 metodi semplici ed efficaci (Vol. 42). FrancoAngeli.

Papadopoulos R. K. (2009). L’epistemologia e la metodologia di Jung. In Renos K.Papadopoulos “Manuale di psicologia Junghiana” (p. 58). Edizioni Moretti & Vitali.

 

Articolo di: Gloria Castelletti