Secondo una ricerca il 75% degli italiani usa internet per informarsi su questioni di salute. Attingendo a queste fonti ci si può imbattere in termini tecnici ed autodiagnosi, che molto spesso diventano il biglietto da visita del paziente quando giunge per la prima volta in seduta.

Inoltre, ancorarsi ad un’etichetta non è solo un potenziale pericolo per il paziente, ma può esserlo anche per il terapeuta stesso.

Von Foerster direbbe che non esiste un’osservazione senza un osservatore, pertanto il punto focale del terapeuta dovrebbe essere sul paziente piuttosto che sull’etichetta diagnostica.

Andare oltre il DSM per conoscere il paziente

Il DSM è un “manuale statistico diagnostico”, che tende a mettere insieme tutte le persone con gli stessi sintomi, etichettandole, per operare su di loro uno studio clinico.

Di conseguenza, a causa di questa necessità, le caratteristiche individuali del paziente vengono appiattite.

Inoltre, le etichette non riflettono una realtà oggettiva esistente, ma un insieme di osservazioni, che categorizzano.

Il che non significa che sono inutili, anzi possono orientare verso scelte terapeutiche e verso piani di prevenzione.

Ma nella terapia breve il processo diagnostico classico viene sostituito da un processo di conoscenza della persona, dei suoi sistemi di conoscenza della realtà, ecc.

La diagnosi nosografica viene sostituita dalla diagnosi operativa, per apprendere come funziona il paziente.

La terapia breve non squalifica la diagnosi, ma mette la persona prima della diagnosi.

Il rischio di non mettere il paziente in primo piano

Definire un paziente solo attraverso una categoria diagnostica può creare tre problematiche:

  1. Non conduce alla soluzione

Attribuire semplicemente un’etichetta diagnostica ad una serie di comportamenti e percezioni ci permette solo di dare un “nome” al problema, ma non di risolverlo.

  1. Può condurre ad una “trappola referenziale”

L’etichetta diagnostica può condurre il terapeuta a ricercare nel paziente tutti quegli aspetti che vadano a confermare l’etichetta diagnostica.

  1. Può far ritenere il paziente un “paziente difficile”.

L’etichetta può paralizzare il terapeuta nell’operare con una “categoria di paziente che si mostra resistente”.

Definire per non interpretare

Per uscire dal circolo vizioso, sia nel caso in cui l’autodiagnosi venga portata dal paziente stesso, sia nel caso in cui il terapeuta si focalizzi esclusivamente sulla diagnosi piuttosto che sul paziente, è bene andare a definire in termini operativi il problema che il paziente ci sta portando.

Possono essere utili due strumenti:

– Ridefinire chiedendo al paziente cosa significa per lui quell’etichetta diagnostica;

– Utilizzare le 4 W: What? (Cosa fai?), Where? (Dove lo fai?), When? (Quando lo fai?) e Who? (Con chi lo fai?).

Ciò aiuta ad entrare nella percezione del paziente, evitandoci di dare interpretazioni non corrispondenti alla realtà del paziente.

Inoltre, ci aiuta a dividere in componenti il problema, per poter decidere su quale area andare a lavorare.

In tal modo sarà possibile concentrarsi sulla cura della persona, piuttosto che sulla diagnosi.

 

Bibliografia

Cannistrà, F., & Piccirilli, F. (2018). Terapia a seduta singola: Principi e pratiche. Firenze: Giunti Editore

Hoyt, M.F. (2018). Psicoterapie Brevi: Principi e Pratiche. CISU editore.

Nardone G. con Balbi E. (2008). Solcare il mare all’insaputa del cielo. Milano: Adriano Salani Editore.

 

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